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1968, PRAGA VENIVA INVASA DELL’UNIONE SOVIETICA. INTERVISTA ESCLUSIVA

UNA PAGINA DI STORIA VISSUTA NEGLI ANNI DELLA CONTESTAZIONE GIOVANILE. ECCO UN’INTERVISTA ESCLUSIVA CON UNA DELLE RAGAZZE DI PIAZZA SAN VENCESLAO…

di Santino Smedili

PRAGA 2014 PARTE II 120COMMENTO: Ogni anno si ripresenta quel tragico anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia. La capitale, Praga, visse la sua primavera; ma sono pochi quelli che ricordano quel drammatico giorno. L’Italia era al mare, anche se non si parlava di vacanze lunghe, di autostrade intasate, di bollini. Tutto ci fu più chiaro dopo, e a distanza di 56 anni possiamo dire che noi c’eravamo. Al contrario di tanti altri, pure, presenti, che hanno dimenticato quel giorno…  Ecco un’intervista realizzata con una ragazza di quella Primavera, nel 2015. 

“Vi ringrazio! So che avete fatto tanto per noi, e senza la vostra solidarietà non avremmo ottenuto la libertà per la quale abbiamo lottato…”

Questo mi ha detto Milena, una mia coetanea che fa la guida turistica e che ho conosciuto durante la mia recente visita a Praga. Il 21 agosto 1968, 47 anni fa, c’era anche lei in Piazza San Venceslao. Migliaia di giovani, un muro umano per fermare i carri armati che Mosca aveva mandato per reprimere la rivolta.

“Quale rivolta? Non c’era stata nessuna rivolta. Avremmo voluto solo la libertà. E quei giovani sovietici, che avevano la nostra stessa età, mandati a reprimere nel sangue l’anelito di libertà del nostro popolo non lo sapevano. Giovani, militari di leva, impauriti e nervosi, avrebbero potuto perdere la calma necessaria per fronteggiare migliaia di uomini e aprire il fuoco. Lo sapevano benissimo i loro ufficiali, che avevano dato l’ordine di sparare per disperdere la folla”.

Momenti di tensione, di paura. Rastrellamenti, arresti, deportazioni.

“Mio padre fu richiamato in servizio nonostante i suoi 52 anni: era un ufficiale dell’esercito, e doveva obbedire al Partito. Era stato decorato nella seconda guerra mondiale, aveva combattuto contro le falangi franchiste. E’ morto qualche anno fa, con il grado di Colonnello. Ma era inviso al regime sovietico, per le sue idee innovative e per questo avversate dal Partito …”.

Milena ricorda quei giorni, che segnarono la lotta di un popolo. Le dico che il mio 18° compleanno era coinciso, il 16 gennaio 1969, con il gesto di Jan Palach. Lei mi ha risposto che il suo era coinciso con l’invasione delle truppe sovietiche.

“Sono nata il 15 agosto… ricordo benissimo il mio compleanno, e anche i carri armati che entrarono nella notte e che trovammo per le strade la mattina.” mi dice. “Ecco qui la lapide che ricorda il sacrificio di Jan Palach…” aggiunge spostandosi verso un’aiuola. “Non era programmato un gesto estremo, perché non fa parte della nostra cultura. Ma secondo lui era l’unico modo per far capire all’Occidente che qui c’era in atto una feroce repressione. Nelle scuole ci hanno imposto lo studio della lingua russa, e solo così abbiamo potuto parlare con quei giovani, quelli con la divisa e la stella rossa. Abbiamo spiegato cosa volevamo, che non c’era nessuna rivolta. Dapprima sono sembrati increduli, poi si sono resi conto che da noi non avevano nulla da temere: eravamo giovani come loro, nati e cresciuti dopo la fine della Guerra, sottomessi alle regole del PC. E’ stato l’inizio del disgelo. Ma non sarebbe durato a lungo: gli ufficiali hanno giustiziato i loro stessi soldati, accusandoli di tradimento. E hanno imposto il divieto di fraternizzare. Queste cose non le sa nessuno, e a nessuno, specie in quegli anni, è stato permesso di raccontarle. La nostra lotta si è fatta più dura: ci riunivamo in gruppi, senza dire dove. Per vederci in Piazza San Venceslao, la parola d’ordine era che ci saremmo ritrovati sotto la coda del cavallo, dice indicando il monumento equestre. E abbiamo continuato rendendo impossibile l’individuazione dei luoghi: abbiamo staccato le targhe con l’intestazione delle strade, assieme ai numeri civici dalle case. Per l’esercito sovietico non sarebbe stato più possibile avere dei riferimenti, fare prigionieri, effettuare perquisizioni. Ma era una lotta impari, e non si vedeva alcuna via d’uscita. Fino a quando non venne decisa l’azione eclatante: darsi fuoco, alla maniera dei bonzi. Non fu il solo: dopo di lui ne seguirono altri, ma in questa piazza, aggiunge indicando le lapidi all’interno dell’aiuola, accanto al suo nome è ricordato quello di Jan Zajic”.

E mentre i turisti scattano foto e si fermano in commosso silenzio, sforzandosi di leggere la lapide che i raggi del sole abbagliano, mi avvicino a Milena per dirle che noi abbiamo vissuto nelle aule scolastiche la lotta della Cecoslovacchia.

“La vostra solidarietà è stata di grande aiuto per noi. Sapevamo che in Italia c’era un Partito Comunista molto forte, sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, e temevamo che quanto succedeva qui in Cecoslovacchia potesse subire anche la censura. Così non è stato. Abbiamo capito che non eravamo soli. Lo sai cosa ha scritto Jan prima di darsi fuoco? Ha lasciato una lettera. Era fiero di essere il primo a dover scuotere le coscienze, e che apparteneva ad un gruppo costituito da volontari, tutti pronti a darsi fuoco. Si augurava di essere anche l’ultimo, ma così purtroppo non è stato. Ha sofferto per giorni, rimanendo lucido e parlando con i dottori che non potevano fare nulla per salvarlo. E’ morto da eroe, il primo di questo nostro Paese. Ai suoi funerali eravamo in più di mezzo milione…”.

Rispondo che anche noi eravamo in migliaia a sfilare quel giorno, silenziosamente, a Milazzo, come in altre città d’Italia. Abbiamo fatto scendere in piazza tutte le scuole, in un lungo corteo. Il servizio d’ordine era imponente. Lo svolgevano i ragazzi di estrema destra, ma anche quelli di sinistra furono concordi a prevenire qualsiasi strumentalizzazione. Non andavamo molto d’accordo, allora, e loro non volevano assolutamente che si svolgesse un corteo di solidarietà nei confronti di un giovane che si era ucciso per dare la libertà al suo popolo. Sapevano, poiché era il partito che gestiva i gruppi giovanili, che il corteo sarebbe stato un atto d’accusa nei confronti dell’imperialismo del Patto di Varsavia, e avrebbe fatto vacillare anche il PCI, che non trovava giustificazioni. Ci controllavamo a vicenda, pronti a scattare alla prima provocazione. Oggi le cose sono cambiate, e da destra e da sinistra ricordiamo gli anni della contestazione come un momento della nostra vita. Non li abbiamo mai rinnegati, e a distanza di quasi cinquant’anni rifaremmo le stesse cose, perché eravamo animati da ideali, nei quali credevamo. Giusti o sbagliati che fossero.

Sorride Milena, poiché sta avendo la conferma del nostro impegno, anche se lo sapeva già. Ma mi chiede decisa:

E poi cosa è successo? Hai avuto ripercussioni negative per questo tuo impegno politico?”.

Sì, Milena, ho ripetuto l’anno. Se all’idea politica, non certo condivisa ed apprezzata da molti, mettevo anche la condotta e l’impegno scolastico che non erano dei migliori, mi spiego tante cose e non ho da recriminare sugli errori dei miei diciotto anni. In fin dei conti è stata un’amara esperienza, che mi è servita.

No, tu hai pagato soprattutto per la tua idea politica”, mi dice come se volesse assolvere le mie colpe che ancora oggi riconosco, e la mia esuberanza. “In Italia non era stato gradito il vostro impegno per il popolo cecoslovacco….

Anche se queste cose le avevo sempre temute, mi vengono confermate da una donna che ha la mia età, e a 18 anni era in piazza San Venceslao, a protestare contro l’invasione del suo Paese. In quegli anni il sistema politico doveva sbarazzarsi di avversari scomodi e pericolosi, e noi eravamo scomodi e pericolosi, anche se avevamo solo diciotto anni. Mi dice che anche in Cecoslovacchia era necessaria la tessera del Sindacato e del Partito per poter lavorare. In Italia occorreva avere quella del Fascismo, ma dopo la sua caduta, la tessera fu sempre necessaria. Non è una prerogativa del fascismo o dei regimi dittatoriali. Chiedo di Alexander Dubcek, leader della Primavera di Praga. Qualcosa che lo ricordi.

Manca un monumento. Non amiamo fare monumenti per ricordare i nostri eroi. E c’è un motivo: ad ogni cambio di regime o di governo, gli oppositori farebbero di tutto per abbatterlo, come se abbattendo un monumento o togliendo una lapide si possa cancellare un simbolo. Il ricordo di Dubcek vive in ognuno di noi, come quello di Palach, che è sepolto nella sua città. Qui avete visto un simbolo, una lapide. Lui è rimasto nel nostro cuore, e siamo fieri del suo gesto, che ci ha spalancato, anche se dopo tanti anni, le porte della libertà. Anche Dubcek riposa nella sua città. Morì per un banale incidente stradale, causato dal suo autista personale che correva un po’ troppo. Era stato espulso dal partito, perché non rinnegò mai il suo passato. Proprio per questo il suo nome fu popolare in patria e all’estero”.

Continua il giro turistico. Alla prima occasione telefono ad Attilio per raccontare di questo mio incontro. Devo dirgli anzitutto che una nostra coetanea ci ringrazia per la nostra lotta per il popolo cecoslovacco. E’ motivo d’orgoglio per me sapere che, dopo quasi 50 anni, i nostri ideali sono serviti a restituire la libertà ad un Paese oppresso, nel quale un giovane come noi aveva trovato il coraggio di uccidersi. E dopo di lui, altri avevano seguito il suo esempio. Giovani animati da ideali, così come lo eravamo noi. Oggi ci definiscono nostalgici o sognatori, o anacronistici. Ci viene da ridere… li compiangiamo, perché non solo non hanno vissuto quelle emozioni, ma perché li riteniamo incapaci di avere degli ideali in cui credere e per i quali lottare. Dall’altro lato del telefono Attilio condivide.

Prima di ripartire per l’Italia, torno a salutare Jan Palach… Addio, fratello. Spero di tornare presto a deporre un fiore su quella lapide…   

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