di Pancrazio Gravili
Quando l’arte smette di essere voce di verità e si trasforma in un ingranaggio ben oliato della propaganda, diventa il più abietto degli strumenti di manipolazione. Diventa un palcoscenico di ipocrisia, un’operazione di maquillage per coprire le macerie e il sangue con un velo di retorica pacificatrice. Sanremo, con la sua platea di milioni di spettatori, non è solo un festival musicale: è una vetrina, un riflettore acceso su ciò che il sistema vuole rendere accettabile, su ciò che vuole far digerire all’opinione pubblica.
Quando sullo stesso palco salgono due artiste provenienti da parti in conflitto, senza che il contesto venga chiarito, senza che venga nominato l’elefante nella stanza – ovvero che si tratta di un genocidio, di un’aggressione coloniale, di un crimine che si consuma ogni giorno sotto gli occhi del mondo –, allora quell’esibizione non è più arte, ma un atto osceno di rimozione collettiva. È un’operazione di marketing emozionale che serve solo a narcotizzare le coscienze, a suggerire che “siamo tutti uguali”, che il dolore è simmetrico, che la violenza è una questione astratta e non il risultato di un sistema di dominio, oppressione e apartheid.
Quando l’arte diventa un’arma di distrazione di massa, il suo scopo non è più quello di elevare la coscienza, ma di svuotare il senso delle parole, di neutralizzare il conflitto tra oppressore e oppresso, di confondere la vittima con il carnefice. Non è un inno alla pace, ma un atto di complicità con il potere. È la stessa logica che negli anni ha prodotto iniziative pseudo-culturali, alle quali avevo sinceramente creduto, per addolcire l’immagine di regimi oppressivi, per spacciare una parità che non esiste, per farci credere che la soluzione sia nel “dialogo” a condizione del più forte, mentre le bombe continuavano a cadere su Gaza, mentre l’occupazione proseguiva indisturbata, mentre l’apartheid si intensificava a livelli di inaudita brutalità.
No, non è arte. È propaganda. È una messinscena macabra dove le vittime hanno già perso due volte: una sotto le bombe e l’altra sotto il silenzio complice di chi preferisce la favola della riconciliazione alla verità del colonialismo.
la foto è tratta dal sito www.unicef.it
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