dal libro DALLA SENA IN POI… Lombardo edizioni
Verso la fine degli anni 50 e i primi anni 60 il Carnevale non era certamente vissuto all’insegna del consumismo, ma guai ad affermare che non c’era divertimento! Forse non c’erano i costosi costumi per i piccoli, infagottati in abitini tre misure più grandi (perché il tempo era sempre inclemente), con i maschietti che si vestivano da femminucce, e viceversa. Le femmine tentavano di alterare la voce, quasi a voler sembrare uomini, mentre i maschi abbondavano in moine, procedendo con equilibrio precario sulle scarpe con i tacchi delle mamme o delle sorelle maggiori.
Durante i giorni di Carnevale si faceva il giro delle famiglie, quelle del vicinato, o ci si recava presso i conoscenti, per divertirsi dopo aver bussato alle porte (in quegli anni il campanello era un privilegio). Se l’abitazione era al primo piano, e il portone era chiuso, doveva essere il padrone di casa a scendere per aprire. E poiché questa operazione doveva essere ripetuta diverse volte nella giornata, il primo apriportone fu costituito da una cordicella legata alla serratura, che si azionava dal piano superiore, al quale arrivava passando in una serie di anelli conficcati al muro, con uno strattone. Dietro la porta di casa, si sentiva dall’interno la domanda di rito: “Chi è?”. E poiché le voci camuffate non erano quasi mai riconosciute, chi era dentro tentennava prima di aprire. Una volta entrate, le maschere dileggiavano il padrone o la padrona di casa, che offrivano agli inattesi ospiti “chiacchiere” o altri dolcetti tipici, sperando di poter conoscere chi fossero. Ma non sempre le maschere svelavano la loro vera identità, per non scoprire le loro carte poiché la visita si sarebbe riproposta il giorno successivo, probabilmente con gli stessi costumi… Non sempre si trattava di bambini o ragazzi, ma anche di mature signore che assaporavano, semel in anno, la voglia di scherzare e divertirsi indossando il “Principe di Galles” del marito, il cappellino con il velo della mamma, risalente al periodo anteriore alla guerra, lo scialle di lana che copriva le spalle, con l’immancabile mascherina davanti alla faccia e i guanti, per non far vedere le mani. Il dubbio amletico del Carnevale era lo stesso: maschio o femmina? Un continuo dilemma, come se si attendesse l’arrivo della cicogna, che in quei tempi faceva anche gli straordinari.
Nei balli fra le maschere, si tentavano le conquiste, ma spesso si trattava solo di clamorose prese in giro, che nessuno vuole ammettere perché vittima della maschera. Infatti il gagà di turno, il “Don Giovanni”, era fatto oggetto delle attenzioni di una mascherina in “domino” (si chiamava così l’abito che andava per la maggiore, e aveva il pregio di fare risparmiare chi voleva essere irriconoscibile: presso il tabacchino di Capone, sul Lungomare Garibaldi, dove successivamente è stato edificato il palazzo Marullo, molti ricorderanno le file delle ultime ore per averne uno ed essere irriconoscibili…) preso in affitto e restituito, lacero e spesso anche lurido, il mercoledì delle Ceneri.
Avveniva così che costui, convinto di avere fatto colpo, passava la serata ballando con la “dama”, e ogni tanto, per scoprire chi fosse, le tastava i fianchi, ricevendo in cambio, ma per scherzo, sonori ceffoni ai quali non reagiva. Scoppiava quindi a ridere, attento a portare la mano davanti alla bocca, poiché c’era sempre qualcuno che ne poteva approfittare ed era pronto a cacciargli in gola un chilo di coriandoli!
Il gagà (ma non occorreva che lo fosse veramente, poiché difficilmente si rimaneva insensibili alle attenzioni di una mascherina, mentre la curiosità faceva il resto…) non rideva più quando, alla fine della serata scopriva di aver ballato con… un uomo! Grande era la delusione dell’impenitente corteggiatore, che cercava comunque una giustificazione, così come risulta dai dialoghi che sovente capitava di ascoltare alla fine del ballo, dopo mezzanotte, fra chi era in maschera e si era fatto riconoscere, e colui che per tutta la serata era stato preso in giro:
“Loccu, mi vulivi tuccàri? Ma ti chiavà ddù mascati. Cià facisti ’a figura!”,
con la pronta replica, per nascondere la delusione
“T’avia cunusciutu, chi tti pari! Facìa finta!!!”.
Poiché a giro toccava a tutti, possiamo confessare che facevamo la figura degli stupidi, ed ammetterlo oggi ci fa soltanto sorridere! In fin dei conti, il Carnevale veniva una volta l’anno, così come diceva lo stesso Salvatore, girando per Milazzo, che canticchiava
“Cannalivàri veni –
n’a vota l’annu –
e si mi jettu a mmari –
iò non mi bagnu…”.
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