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LA FESTA DI SANTO STEFANO, UNA VOLTA…

Quel che succedeva prima, durante e dopo, in mezzo alle bancarelle e ai suoi protagonisti… 

santo stefanoSiamo alla vigilia di Ferragosto, imperversano le sagre paesane, ed anche Milazzo ha le sue, quella della Melanzana e quella del Pesce, entrambe per fare rivivere ai turisti ma anche ai nativi le tradizioni della nostra città. A tutte e due dedicheremo spazio in altri numeri di TERMINAL, chiedendo (anticipazioni per essere preparati alle risposte) se i comitati organizzatori abbiano intenzione di aprirsi, finalmente, agli stranieri, che ormai sono perfettamente inseriti nel tessuto cittadino. E’ da almeno otto anni che auspichiamo l’internazionalità di queste due feste, che per la prima volta abbiamo potuto assaporare (la parola giusta, perché la gastronomia la fa da padrona…) tutte e due, svolgendosi in due date differenti. Le possibilità ci sarebbero, e Milazzo per rilanciarsi ha bisogno anche di questo! Così come ha bisogno di puntare su un evento che una volta, in anni purtroppo lontani, catalizzava l’attenzione di migliaia di cittadini, e costituiva anche per i numerosi turisti un’attrattiva: la festa del Santo Patrono, Santo Stefano. Ne abbiamo parlato tante volte su questo giornale, e torniamo a farlo ancora oggi perché fa piacere rivivere momenti del nostro passato. In molti ricordano il lungomare Garibaldi, quello anteriore alla mareggiata del 1981, brulicava di ambulanti, tutti regolarmente autorizzati! Lo è ancora oggi, nelle ore serali, purtroppo senza alcuna regola e senza alcun decoro, in spregio alle norme che vengono fissate per i commercianti regolari e disattese per chi la “licenza” non sa nemmeno dove abiti. Meraviglia che il Ministro Alfano voglia vietare l’accesso sulle spiagge ai “vu cumprà” che disturberebbero i bagnanti, senza pensare che anche loro potrebbero contribuire a far salire il PIL, se i soldi li reinvestissero in Italia anziché mandarli nei loro paesi di origine… Ma siccome il lungomare non è SPIAGGIA, e per molti sono un’attrattiva, lasciamo cadere la cosa, come dicevano Franco e Ciccio, e torniamo alla Festa di Santo Stefano di una volta. Bancarelle, cantante, gara ciclistica, gimkana e altre attrattive per una città che aveva anche soldi da spendere. Sorvoliamo su una gara ciclistica che non si disputa più, stendiamo un velo pietoso sul cantante poiché sembra una sonora presa per i fondelli fare esibire a Milazzo, città che ha ospitato in passato i grandi della musica leggera, cantanti o pseudo tali che attendono la telefonata dell’impresario di turno per mostrare il loro decadimento fisico e … canoro! Tutto questo dopo che per una stagione in provincia si sono tenuti concerti dei vari Zucchero, Fiorella Mannoia, Vasco Rossi, Renato Zero, Claudio Baglioni, Massimo Ranieri, Antonello Venditti. Ma siccome da queste parti vige il detto “Ogni acqua leva ’a siti”, come se fossimo in pieno deserto, ci accontentiamo, e alla fine ci rendiamo conto che è passato un altro anno, ma di progetti per il successivo non se ne parla! Neanche le bancarelle sono quelle di una volta: invasione incontrollata di torronari, per il resto extracomunitari che espongono la loro merce; e qualche altro che pensa di vendere CD, articoli per la scuola o giocattoli made in CHINA! Una volta era diverso. C’era anche il teatrino, ogni sera, al punto che si registrava il TUTTO ESAURITO. Il palcoscenico era una bancarella, e gli spettatori erano spinti dalla curiosità di sapere se i partecipanti riuscivano a vincere il premio principale. Si trattava di una specie di AFFARI TUOI ante litteram, in cui il protagonista conduceva le trattative. Era costui un imbonitore di origine catanese. Accanto a lui, il fedele Paolicchio, aiutante di poche parole. Lo scenario era un autocarro, con la sponda laterale aperta, che faceva vedere scaffali pieni di merce da mettere in palio. Lì sopra l’imbonitore vendeva ai presenti dei numeri (diceva sempre che aveva gli ultimi…). Alla fine ne estraeva uno, al quale era abbinata una busta, e intavolava una serrata trattativa con il fortunato estratto, al quale offriva, in cambio della busta, uno dei regali. Questi erano spesso la bambola, in abito di pizzo, tulle e raso, che molti acquistavano per mettere al centro del letto matrimoniale (non era un’anticipazione delle bambole gonfiabili…); il frullatore, il ferro da stiro, la scala a forbice, la macchina da cucire, la bicicletta da maschio e quella da femmina (la prima aveva il “telaio” tra la sella e il manubrio, sul quale si faceva sedere un passeggero. Il telaio era assente nella seconda, per permettere un accesso più agevole alle donne che avevano, allora, quasi tutte la gonna); il televisore (in bianco e nero, MIVAR, a 14 pollici), la lavatrice, ed altri… Chissà perché, quasi sempre il concorrente voleva a tutti i costi la busta, rifiutando ciò che veniva offerto; certamente era convinto di vincere il primo premio: ma il più delle volte l’ingordigia non pagava, poiché la busta non conteneva nulla! L’imbonitore portava avanti invano le trattative: sapeva che non sarebbe stato ascoltato nelle sue proposte, ma insisteva per cuocere a fuoco lento il concorrente. Quello che sto raccontando è successo veramente, e dopo mezzo secolo ricordo per filo e per segno come si svolse la trattativa e quello che accade anche dopo, come si direbbe ora, fuori onda: “Senta, lei mi lascia la busta e mi dà diecimila lire, e io le do il frullatore e l’orsacchiotto di peluscio. Dici ca sì”. Il DICI CA SI’ era la frase che rendeva popolarissima la bancarella. Pronunciata in dialetto catanese, non convinceva il concorrente, il quale sperava sempre in un premio maggiore… Ma il motivo era spesso un altro: quando gli sarebbe capitata un’altra occasione? Per una sera al centro dell’attenzione, con moglie, figli, suoceri, settima generazione e conoscenti a tifare per lui, tutti richiamati da un frenetico passaparola sul lungomare (all’epoca, a Milazzo ci conoscevamo un po’ tutti…), non cedeva, faceva il duro, era convinto di essere lui, per una volta, ad avere l’ultima parola. Finalmente anche lui aveva la sua rivincita! Lui, che a casa contava meno della scopa dietro la porta, doveva dimostrare di avere i pantaloni, e sotto i pantaloni, le palle. E lo voleva dimostrare proprio a quell’altro, catanese, che era nato facendo quel mestiere.

’A bambula fatti dari”, gli imponeva la suocera che non mollava la figlia di un solo passo (neanche dopo il matrimonio). Ma il figlio implorava

’A bicicletta, papà, ’a bicicletta…”. L’imbonitore rincarava la dose

Lo faccia contento! Vuole la bicicletta?”,

e mentre tutti agitavano la testa come se avessero avuto contemporaneamente il Parkinson, aggiungeva:

Mi dia 50 mila lire, e mi lasci la busta. Dici ca sì. Quale vuole? Quella da maschio? Paolicchio, fai vedere la bicicletta!”.

Controllo superficiale e disinteressato, quindi il deciso rifiuto.

Chi ’mbali, poi ta ccattu undi Santu Maiu – sussurrava sottovoce al figlio, continuando la trattativa – ’A busta vogghiu!”.

La busta? E se non c’è niente? Senta, facemu ’na cosa: lei mi lassa ’a busta, mi dà centomila lire e le do pure il frigorifero. Bicicletta e frigorifero! Dici ca sì!”.

E mentre i presenti si affannavano a suggerire “Dicci sì, dicci sì” lui rimaneva irremovibile: dove le prendeva le centomila lire, che in quegli anni era un mese di stipendio di un impiegato, se avesse accettato? Anche per questo replicava “’A busta vogghiu”, convincendo moglie, figli e codazzo che “se la sentiva”…

Chiudèmula ccà – interveniva la suocera – ci dassi ’a busta! Quando me iénniru s’a senti, s’a senti!”.

Il pollo era cotto a dovere. Nessuno, nella concitazione delle trattative, faceva caso ad un piccolo particolare che avrebbe dovuto fare accettare qualsiasi proposta: al dito indice della mano destra l’imbonitore aveva un anello, non certo di fidanzamento, con un vistoso brillante che sembrava una noce di cocco! Anche noi, che ragazzini ci intrufolavamo per meglio assistere alle scene divertenti, ci rendevamo conto che quel segno distintivo voleva dire molto… Ma chi giocava e voleva a tutti i costi vincere, ammirava solo la busta che quello, con la stessa mano destra, sventolava…

Vuole la busta. Va bene, vediamo un po’, lei ha vinto… adesso apriamo… una limonata da Cilindro (che aveva il chioschetto all’inizio della Marina). Avanti, signori! Paolicchio, vai per un altro giro!”.

Fin qui la rappresentazione. Ma come anticipato, abbiamo anche registrato il “fuori onda” seguendo, all’epoca, il “fortunato” vincitore che, con la coda fra le gambe, si allontanava, accompagnato dall’ironia generale: “Minchia, ma sintìa, pacenza. C’aiu a ffari ca’ limunata…”.

Daccilla a mammà, ci facisti fari i budedda fracidi…”.

“Ah, ora ’a cuppa ll’haiu iò?”.

E chi ll’haiu iò – interveniva la suocera – ti ll’avja dittu mi ti pigghiàvi ’a bambula! Non t’avissi piaciutu ’a bambula, supra o lettu. Ll’avi puru cummari Cuncittina, ’a vincìu l’autr’annu!”.

“Genti futtunati, chiddi”.

Futtunati? Iannu culu, soddi chiàmunu soddi, e pidocchi chiàmunu pidocchi. Mentri to matri si ’mbivi a limunata, iò ccattu a càlia…”.

Non pigghiari simenza, chi ppoi a mammà ci veni di novu siti!”…

Se qualcuno era presente, potrà testimoniare che non ci siamo inventati nulla. Come? Chi erano i protagonisti? No, troppo volete sapere… C’è la PRAIVASI (si scrive così, vero???).

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