di Giuseppe RANDO
Quand’ero ragazzo, osservavo divertito che le persone anziane, abitualmente dialettofone, all’improvviso cambiavano registro e parlavano in italiano, soprattutto quando si innervosivano per qualche nostra piccola o grande marachella, e assumevano un piglio magistrale, altisonante: «E non mangiare più assolutamente ficadindia gerbi». Per converso, mi capita, da qualche tempo in qua, di pensare che il dialetto, per la sua naturale carica antiretorica, ci aiuti a scansare le insidie dell’enfasi, ma anche dell’autocommiserazione e/o dell’autocelebrazione. E mi tornano in mente alcune locuzioni dialettali di mio nonno: a) «Ccà semu e ccà calamu a rizza»; b) «Mi vardu, mi viu e mi cianciu»; c) «Aunni mi votu, mi bruciu»; d) «Cu non mi vôli non cunta».
Le profferiva con disinvoltura, quasi volesse, sardonicamente sottolineare la situazione non piacevole in cui si trovava: non poteva sperare nessun sostegno dagli altri, nemmeno da amici e parenti («Aunni mi votu, mi bruciu» = «Dovunque mi volto, mi brucio») e non aveva alcun motivo per consolarsi o per compiacersi («Mi vardu, mi viu e mi cianciu» = «Mi guardo, mi vedo e mi [com]piango»), ma non si lasciava abbattere: «Cu non mi vôli non cunta»= «Chi non mi vuole, non conta [niente]»). Non gli restava, alla fine, che accettare realisticamente, forse fatalmente (aveva l’aspetto di un arabo: alto, magro, capelli neri nonostante la vecchiaia, colorito scuro della pelle), la realtà. D’altra parte, si direbbe che seguisse, abitualmente, da siciliano «sputatu» (perfetto), la lezione dell’esperienza (contro le astrazioni metafisiche e/o ideologiche), anche se non aveva mai sentito parlare di Locke: «Ccà semu e ccà calamu a rizza», ovvero: «Siamo qua, in Sicilia, al Faro Cariddi, nella prima metà del Novecento (non nella «Merica») e qua dobbiamo lavorare per vivere»: un moderatismo che sfiorava, invero, la rassegnazione, ma non astratto tuttavia.
Ora, anch’io – che vivo ancora in Sicilia, a Messina, e non a Milano, né a Parigi, né a Londra, né nella «Merica» – reagisco, abitualmente, alle contrarietà della vita, con la stessa sardonica o ironica disposizione mentale di mio nonno. Il che non può che comportare due sole spiegazioni: o io sono arretrato di cento anni o Messina non è molto cambiata da quella che era cento anni fa. Certo, io lotto, invito i miei concittadini, i miei familiari e i miei allievi alla resistenza (ho addirittura pubblicato un libro “Resistere a Messina”), collaboro, da anni, come posso, con quanti lottano nella società civile, nei partiti democratici, nell’Università contro il degrado. Ma, alla fine, davanti allo sfacelo che pare imminente, non mi abbatto: «Ccà semu e ccà calamu a rizza»: non tiriamo, insomma, i remi in barca. Allo stesso modo, se la mia inesausta attività didattica e scientifica (apprezzata – devo dire, senza iattanza – in all over the world) suscita l’invidia di qualche mio collega, me ne faccio presto una ragione e chioso, sardonicamente, come quel pirata di mio nonno: «Cu non mi vôli non cunta».
Foto tratta da https://www.difesapopolo.it/
Commenti