PUBBLICATO GIA’ DA TERMINAL, ALLORA NON SI PARLAVA DI MALASANITA’ E LE ATTESE ERANO PIU’ BREVI: NOTARE NELLA NARRAZIONE ANCHE LA POSSIBILITA’ DI SCEGLIERE TRA ALTRI OSPEDALI…
A proposito di PRONTO SOCCORSO, ecco un nostro articolo pubblicato a luglio 2009 su TERMINAL. Abbiamo raccontato quel che successe molti anni fa ad un giovane dottore, al Policlinico di Messina. Come in qualsiasi altro ospedale, abbiamo fornito la prova inconfutabile che ogni mondo è paese. Non abbiamo fatto i nomi né del medico, né dell’infermiere, né dei visitatori e non li faremo nemmeno ora, evitando accuratamente anche di citare chi ha riferito a noi di TERMINAL l’accaduto. Anzi, dopo tanti anni, lo abbiamo dimenticato. Manteniamo invece il dialogo avvenuto in dialetto messinese. Ci scusiamo per coloro che non lo comprendono, ma se volete, possiamo tradurlo…
Ecco i fatti: al Pronto Soccorso, alle tre e mezzo di una calda notte di luglio, arrivò una Fiat UNO con quattro persone a bordo, con il clacson come se l’Italia avesse vinto i mondiali. Sull’auto spiccava l’antenna che terminava con una zampa di coniglio, e un grappolo d’uva in plastica che pendeva dal retrovisore interno. Scesero in fretta marito, pantaloncini, zoccoli e camicia annodata sopra l’ombelico, moglie, con vestaglietta fiorata e zatteroni, il padre di lei, canottiera blu e al collo un laccio d’oro con una croce di tre chili e mezzo. Il fratello di lei, mezzo morto dal sonno, rimase in macchina. In braccio la donna aveva un bambino, che singhiozzava, a dirotto. Una famiglia messinese, che veniva da una zona storica. Mentre il medico boccheggiava per l’afa, l’infermiere di turno, stiracchiandosi, mormorò: “Chi camurrìa, non si po’ dòmmiri mai, ’nta stu spidali: ogni notti iè un buddellu!”
Il medico chiese l’età del bambino.
“Mancu ddu anni, dutturi! Vidi chi picciriddùni!” rispose prontamente il padre, orgoglioso per il figlio maschio. “Iavi ’na nuttata chi cianci!”, aggiunse contrariato per non aver potuto dormire.
La moglie lo accarezzava, dicendo “Bbonu, ciatu da mammà! Ora ’u dutturi ti fa passàri tutti cosi!”.
Il medico si avvicinò per visitarlo, ma si ritrasse disgustato: “Ma questo bambino puzza maledettamente di vino? Ha bevuto vino?” chiese incredulo rivolgendosi alla coppia.
Al che il nonno, con fare da “malandro”: “Picchì, lei chi c’iavissi datu ’o picciriddu, dopu ’o piscistoccu ’a ghiotta? U latti?”
Pronta replica del padre, incoraggiato dal suocero: “Ma lei, dutturi, è figghiolu! Nni capisci?”, mentre la moglie, inviperita, aggiungeva: “Pigghia ’u picciriddu, Lillu, puttamulu ’o Piemonti, ’o Maggherita, fammìllu nèsciri! Chistu ’nnu fa mòriri, mi pari a mmia chi non capisci nenti!”.
Ma l’infermiere, uomo più avvezzo al “dialogo”, intervenne categoricamente: “Unni stati annannu? Non facìti fissarìi! ’U dutturi sapi chiddu c’havi a’ffari. E ppoi, ci sugnu iò!” facendo pesare il suo ruolo al’interno dell’ospedale quasi fosse lui il primario.
“Sì, sì, lassàmulu ’ccà!” intervenne il fratello, che si era svegliato di soprassalto “Cu stu buddellu chi cummìna, unni vai pedi pedi ’i notti? Nn’am’a ’ffari canùsciri ’i tutti? Ora s’a vidi iddu! Avìa pigghiatu sonnu ’nta màchina, e mi ruspigghiàstu…”.
E fu così che il giovane medico cominciò a farsi… le ossa, ma soprattutto a sapere che dopo il pescestocco “a ghiotta”, specialmente a Messina, non si beve latte!