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‘U SCECCU COMUNISTA CI FA ‘A GNIZZIONI ‘O PARRINU!

Domani, e fino al 31 agosto, Santa Lucia del Mela ospiterà, con l’Associazione PICCOLO TEATRO, la Rassegna Teatrale “Mimmo Cirino”, per rendere omaggio ad un concittadino che ha dedicato la sua vita alle attività culturali e teatrali. Di Mimmo Cirino abbiamo uno scritto che raffigura un personaggio realmente esistito e che tutti abbiamo stuzzicato per sentire da lui la frase che lo aveva reso celebre, ‘U sceccu comunista… Vi lascio a quanto scritto da Mimmo Cirino.

U sceccu comunista 

È (secondo Giuseppe Andaloro – 1907/78) una sorta di mitico essere vendicatore dal corpo d’asino arrapato e furente, che scalciando e ragliando sonoramente, col membro all’aria, la testa protesa in avanti, digrignando i denti arriva, come volasse, per raddrizzare i torti subiti dalla povera gente contadina.

Nulla sapeva delle fantasie d’Ariosto, di ippogrifi, unicorni e gran leoni con la spada in mano, conosceva invece la dura fatica dello zappatore e come tanti era piegato in due, quasi a squadra .

S’aggrappava ad un bastone nodoso e andava sorridendo inebetito cantilenando a volte : – ih …ih … ù scèccu comunista … sì … sì… ù scèccu comunista … annùnca nò ! –

Sbirciava di sbieco e dal basso le persone, sempre alla ricerca di una mezzadria o di un qualche lavoro nei campi perché voleva lavorarselo il pane per la sua famiglia. Eh, ne aveva avuti dispiaceri! Vestiva un cappottaccio nero, calzava scalcagnato, e seguendo il suo bastone andava sperando che “ù scèccu comunista” portasse un po’ di giustizia anche a lui, che aveva tanto bisogno gli si aggiustassero le cose.

Era d’una categoria unica e sola: – “Profugo dell’industrializzazione”.

L’impianto della raffineria “Mediterranea” prima e l’insediamento dell’ENEL dopo, lo aveva malamente scacciato dalla sua “colonìa” sulle terre del barone Marullo.

– Un contadino avanti negli anni non serve all’industria, quindi via di qua!

Lo scacciarono senza alcuna garanzia per il suo futuro lavorativo e di vita.

Si! Era diventato invisibile. Amava quella terra di primizie e ortaggi saporiti, era orgoglioso delle geometrie dei suoi solchi ove l’acqua scorreva a ristorare tutto quel ben di Dio, ma sopra ogni cosa amava alla follia il gelsomino (il persico yàsamìn). Da giovanotto aveva lavorato alla distillazione di quell’essenza. Il gelsomino siciliano era coltivato ovunque nella piana ed, a tempo debito, una vera moltitudine di donne veniva giù dalla Valle del Mela per raccoglierlo sul far dell’alba e porlo in grandi ceste perché giungesse alla distilleria prima che il sole, riscaldata la piana, ne vaporizzasse l’essenza.

Nato a Milazzo, avrebbe guardato al mare per il suo avvenire, ma troppe volte all’alba, sorretto a mezz’aria dall’effluvio di quel divino odore, aveva ad occhi aperti sognato lì, nella piana, le gioie della vita con la sua Crocifissa, che soleva intrecciare nei capelli fiori di campo, garofani e gelsomini. Con lei aveva fatto casa e famiglia ad Archi marina, là dove il Floripotamo abbraccia il mare dell’antico Naulòco in uno spumeggiare delle acque al confine del Mylae, stallo delle vacche sacre al deus Sole figlio di Iperione, ove, fra la bianca spuma della foce del “Floripotamo” e lo smeraldo di un libero mare, si favoleggiava fosse il luogo di “Srina”, la sirena del golfo di Milazzo.

Lo incontrai di notte, che si lavava sbuffando, alla fontanella della stazione ferroviaria di Pace del Mela / Giammoro. Mi parlò dello “Scèccu Comunista” come della sola speranza per i derelitti, e delle sue imprese da vendicatore, ecc..

Mi ritirai nella dirigenza perché le due figlie si potessero lavare senza il timore di dare spettacolo, poi li vidi allontanarsi portandosi via ciascuno una busta di plastica piena d’acqua. Seppi dopo che abitavano in affitto una casetta rurale senza servizi, di tale Filippo Caminiti, accanto al torrente di Gualtieri, chiamato Muto. Si rifornivano d’acqua solo di notte approfittando del buio per lavarsi alla fontanella in contrada “è ndìgini” accanto alla casa, detta “degli spiriti”.

Oggi in quel sito c’è una fabbrica di batterie nella zona industriale. Erano schive, le due figlie (Francesca e Concetta Andaloro), per naturale riserbo e da quando il fratello ventenne era annegato, coperte di nero lutto e sfatte dal tragico pianto, restavano sempre rintanate in casa come fossero volpi in cattività, che guaendo si staccano da sole il pelo di dosso. Lui (il padre) s’era come smarrito e seguendo il suo bastone farfugliava a sproposito, sempre più piegato tanto che le cocche del cappottaccio strisciavano la polvere della strada.

Un’auto, a Giammoro, lo tolse alle sue ambasce mentre, attraversando la nazionale (SS 113), aveva il volto illuminato da un sorriso e credeva di parlare alla sua Crocifissa chiedendole consiglio sul da farsi.

Salvatore (Andaloro, il fratello) eseguiva con cura qualunque lavoro gli si dava da fare e correva di qua e di là col vespino per guadagnare ciò che serviva alla famiglia. Definirlo un bel ragazzo non rende giustizia a tutta la simpatia, la naturale eleganza e la delicatezza dei suoi tratti.

Era contento di sé, nella sua semplicità.

Quel ferragosto del ’75 aveva deciso di starsene a mare tutto il santo giorno e si era portato l’occorrente. Aveva nuotato sino a stancarsi. Disteso al sole sentiva la rena cuocergli la schiena e si spostò sul bagnasciuga. Sonnecchiava quando un pallone gli cadde addosso.

Si svegliò. Un gruppetto di ragazzi e ragazze lo guardava in attesa. Ripescò il pallone dall’acqua e glielo lanciò con un sorriso. Prese a passeggiare sulla battigia. Il rifluire del mare gli massaggiava le caviglie. Una grossa camera d’aria gli galleggiava a lato; l’avevano portato dei ragazzi venuti lì in vacanza dall’alta Italia. Chiese di poterla utilizzare. Gli fu data e prese a spingerla innanzi a sé, nuotando svelto verso la “fossa dell’ENEL”, ove si pescava facile. Trattasi del punto in cui l’acqua utilizzata per il raffreddamento delle turbine, che producono energia elettrica, si getta a mare spumeggiando.

Era quello il luogo di “Srina” e c’era, a una diecina di metri dalla riva, una delle vene dell’acqueviola che dava al mare un sentore profumato e dolce.

Il sole si disponeva a calare dietro il “capo Mylae” e i suoi raggi infuocati tingevano quel mare di cobalto con dei riflessi rossastri che lo rendevano traslucido come non mai. Si calò sott’acqua ed ebbe la ventura di prendere con le mani ben due pesci di media grandezza. Riaffiorò. Scosse la testa respirando a bocca piena.

L’acqua scolandogli dal volto aveva disegnato sul capo una scriminatura ed i capelli si disposero accanto alla faccia incorniciandola. La camera d’aria spinta da un refolo era ormai lontana. Una nenia dolce lo cullava e si dispose molle sul mare illanguidito.

Una femmina bellissima si lasciava fluttuare accanto a lui. Sentiva smarrirsi e precipitare, come in un sogno, nel fondo di quegl’occhi da cerbiatta, che si dilatavano a raccoglierlo e sorreggerlo avvolto in una melodia divina.

Era “Srina” che aveva liberato gli ultrasuoni del suo canto.

Restò così, incantato. Il sole tondo e rosso, fermo all’orizzonte prima di sparire, lo portò fuori da nebbiosi ricordi di quando bambinetto, superato il campo dei gelsomini per guardare il mare, s’era smarrito ad un simile canto ed era tornato a casa piangendo con occhi dolci, di cane innamorato.

Si lasciò portare per mano dalla sirena oltre il Capo, fino al canale, avvinghiandosi stretto a “Srina” per amarla, là dove il mare è più mare, in un gorgo di passione di un amore ideale, sempre sognato, di languide carezze e baci famelici senza fine. Del resto la sua conformazione non avrebbe comunque consentito un amore carnale e per qualche verso violento.

Lo ripescarono due giorni dopo i sommozzatori. Aveva ancora nella mano sinistra uno dei pesci pescati e le labbra un poco consumate,  “Come rosicchiate dai gamberetti”, dissero.

“Srina” l’aveva dunque ucciso? No! L’aveva liberato e potrà così nuotare in eterno nell’acqua di quel mare, unico elemento capace d’esaltare la pura bellezza.

Qui finisce la storia d’U SCECCU COMUNISTA. Non sappiamo se ancora avremo il coraggio di ridere al suo ricordo, dopo avere letto i drammi che si consumavano in quell’uomo piegato in due dal lavoro e dalla fatica. GRAZIE, MIMMO CIRINO.

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