Una radio che trasmette messaggi apparentemente insignificanti, l’inquietante voce fuori campo che risuona nel teatro e mette angoscia, i passi cadenzati che fanno temere che qualcosa di irreparabile stia per accadere: ecco che il lavoro di Antonio Grosso, UNA COMPAGNIA DI PAZZI, entra nel vivo e cattura gli spettatori. Poi, all’improvviso, il dramma, che era stato tenuto lontano dall’incalzare dei dialoghi, dalle battute, dai cinque personaggi, anzi sei, che si muovevano sul palcoscenico del Vittorio Emanuele.
Chi non conosceva il lavoro pensava di assistere ad una commedia in cui la comicità sarebbe stata la protagonista dei novanta minuti che hanno tenuto inchiodati alle poltrone gli spettatori, in attesa del colpo di scena, delle risate a crepapelle, del divertimento, dell’ennesimo doppio senso inserito nei dialoghi per fare scattare l’applauso.
Non è stato così: tutti in silenzio, a trattenere il respiro. Magari a chiedersi cosa avessero da trasmetterci quei cinque attori, anzi sei: i tre pazzi (una volta si chiamavano così), i due infermieri, il direttore. La vita ci ha insegnato a non ridere di fronte a persone meno fortunate di noi, ad avere rispetto di loro, a comprenderne le difficoltà, ad amarle; e così abbiamo conosciuto Gaspare Di Stefano, che ha utilizzato la musica per introdurre il suo personaggio. Abbiamo conosciuto Natale Russo, cercando di scoprire le origini dal suo dialetto. E ci siamo commossi per l’interpretazione di Gioele Rotini, ossessionato dalla pulizia e in manicomio fin da piccolo, proprio come si usava fare un tempo, prima della legge Basaglia e della 180, per liberarsi di congiunti scomodi…
Già, un tempo… perché la storia di quei cinque, anzi sei personaggi è ambientata durante il ventennio fascista. Per l’esattezza a pochi mesi dalla caduta del fascismo, quando era maggiore il risentimento, l’odio, la reazione per reprimere con il sangue chi avesse voglia di riscattare la libertà perduta.
Ma cosa ne possono sapere quelle cinque, anzi sei persone rinchiuse in un manicomio? Tre lo sono per le loro condizioni psichiche, le altre due sono gli infermieri, Antonio Grosso ed Antonello Pascale, che ormai si sentono legati da un rapporto di familiarità agli altri sfortunati protagonisti. Ed il sesto? Il direttore, Francesco Nannarelli, despota, cattivo, con l’eleganza dettata dal suo ruolo, con il suo abbigliamento che stride con quello trasandato dei malati e del personale; e già basta a renderlo antipatico. Fin quando ha ragione di temere di essere in pericolo di vita: le leggi razziali vanno applicate, anche su chi ha nascosto o protetto un ebreo, e lui lo è!
Temiamo che da un momento all’altro qualcosa possa accadere. Illudersi che ci sia un finale diverso, un atto di pietà, non avrebbe senso. Con il direttore devono pagare per una colpa non commessa anche gli altri: e tre pazzi e i due infermieri, per averlo coperto! Una complicità che non era mai esistita, ma l’averlo trovato in quel manicomio è utile a fare scattare l’accusa nei confronti degli altri cinque, e di applicare anche per loro la condanna a morte mediante fucilazione!
Ecco presentarsi in tutta la sua violenza, in tutta la sua follia quel mondo esterno che non avevano mai conosciuto: la pazzia è fuori, così è sempre stato! Vittime della barbarie e della violenza, non comprendono nemmeno che stanno per morire per colpe non commesse! Il rumore degli spari colpisce loro e colpisce noi, attoniti e increduli. Mentre dall’alto scende la neve, che aspettavano tanto, i sei attori vengono sommersi da lunghissimi, scroscianti applausi. In sala si sente una canzone tradizionale che cantavamo da bambini, una canzone dialettale che viene scandita con gli applausi di un pubblico che, ancora una volta, ha apprezzato il lavoro e la scelta del Vittorio Emanuele.
Antonio Grosso, che rivela le sue lontane origini messinesi (mio nonno era di Messina, dichiara orgogliosamente) e porta sul palcoscenico la sua bambina, raccoglie altri applausi quando dedica il suo lavoro a Mahsa Amini, la ragazza iraniana uccisa per aver indossato il velo in modo sbagliato.
Anche il suo lavoro, quella UNA COMPAGNIA DI PAZZI, altro non è che un inno a difesa della libertà, della dignità. Quei cinque, anzi sei personaggi, ce l’hanno ricordato emozionandoci.
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